Onorevoli Colleghi! - La continuità educativa nel processo di integrazione degli alunni diversamente abili è uno dei diritti garantiti dallo Stato, anche se scarsamente rispettato. Sul tema della continuità non si può non evidenziare come, negli anni '90, si sia tentato, con vari interventi, legislativi e regolamentari, di passare alle concrete azioni educative e didattiche generalizzate. La tematica e l'esigenza della continuità si sono progressivamente imposte nella cultura pedagogica solo quando sono risultati sempre più evidenti i danni della discontinuità del sistema educativo italiano. Partendo da questa consapevolezza il legislatore ha emanato una serie di norme specifiche sulla continuità che è bene richiamare cronologicamente:
1) la premessa generale ai programmi didattici per la scuola primaria, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 12 febbraio 1985, n. 104;
2) gli articoli 1 e 2 della legge 5 giugno 1990, n. 148, recante la riforma dell'ordinamento della scuola elementare;
3) la parte II, punto 4, degli orientamenti dell'attività educativa nelle scuole materne statali di cui al decreto del
4) il decreto del Ministro della pubblica istruzione 16 novembre 1992 allegato alla circolare n. 339 del 1992 sulla continuità educativa.
Queste norme e direttive sono state oggetto di varie iniziative di aggiornamento, tra cui il piano nazionale di aggiornamento per le scuole elementari prima e per le scuole materne poi e il piano nazionale di aggiornamento su Continuità e valutazione nella scuola elementare.
Il quadro dei problemi implicito nelle questioni della continuità ha una valenza psicologica che non si può sottacere. Negli anni '80 si è teorizzata la «scuola come centro di ricerca» che costituirebbe il perno di un sistema scolastico allargato e integrato in continuità con l'ambiente familiare e sociale; tale integrazione impone evidentemente il principio della «continuità didattica», per evitare che si creino fratture tra via scolastica ed extrascolastica, facilitando, altresì, il legame con i bisogni formativi del territorio, vale a dire la creazione della cosiddetta «continuità orizzontale». Per molti anni, oltre che di continuità tra scuola ed extrascuola, si è discusso anche di continuità curriculare tra i vari ordini e gradi di scuola in cui transita il soggetto in età evolutiva. La discussione sulla continuità didattica è legata principalmente alla problematica degli stadi di sviluppo studiati da Piaget. Sappiamo bene quanto Piaget abbia insistito sulla continuità degli stadi di sviluppo che caratterizzano le fasi di ogni crescita, oltre che sulla discontinuità tra i vari stadi. Secondo Piaget negli stadi inferiori dello sviluppo sono, per così dire, già presenti i «prodromi» di quelli che saranno i livelli superiori, i quali ne rappresentano una maturazione in continuità. Da qui la sua insistenza sulla necessità nel far acquisire i cosiddetti «pre-requisiti» e sulla continuità tra i curricoli formativi tra i vari ordini e gradi di scuola. La psicologia dell'apprendimento, sviluppando queste indicazioni, ha progressivamente cercato di informare, attraverso le pubblicazioni più diffuse, la didattica scolastica. Ma le questioni della continuità meritano uno sguardo più a fondo di quanto fino ad oggi si sia fatto nella pubblicistica pedagogica più vicina temporalmente a noi. Da varie parti si percepiscono l'importanza della questione e i pericoli della frammentazione dell'azione educativa; nelle riflessioni della pedagogia moderna, e in particolare quella di John Dewey, viene messo in luce il carattere «della continuità dell'esperienza e di quello che si può chiamare il continuum sperimentale». John Dewey scrive, nel suo libro intitolato «Esperienza e Educazione», di aver individuato nel principio della «continuità» il discrimine per distinguere le esperienze che hanno un valore educativo da quelle che non lo hanno. È la continuità dell'esperienza che sta alla base della formazione delle abitudini; «ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l'hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno». L'autore, già nella sua opera pedagogica più famosa, «Democrazia e Educazione» (pubblicata nel 1970), aveva insistito su quest'aspetto. Riflettendo sull'esempio di colui che impara ad andare in bicicletta aveva già fatto notare che «l'atto semplice dell'andare in bici, comporta una "continuità" nei movimenti e l'eliminazione di quelli superflui e dannosi e che l'abitudine incorpora in modo automatico una serie di processi "concatenati" e in sequenza temporale: l'atto finale dell'andare in bici non è poi così semplice come appare, ma presuppone un processo di apprendimento in cui una serie di tentativi sbagliati e dannosi sono stati eliminati e solo quelli utili sono stati "continuati" e via via perfezionati». È la continuità, secondo Dewey, che sta alla base delle abitudini e quindi della formazione. Gli studiosi a noi più vicini, e in particolare Bruner e Gardner (Bruner 1980, Gardner 1987), tenendo conto sia delle ricerche di Piaget sia di quelle di Vygotskji (Vygotskji 1969), convergono nella stessa direzione: poiché l'apprendimento di un ambito disciplinare